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CALCUTTA

  • Fulvio e Irene (dopo tragicomiche vicende con le
  • 28 mar 2016
  • Tempo di lettura: 3 min

Chi soffre di disturbo bipolare, scuserete la tautologia, ne soffre.


Essere lunatici, essere umorali, tutto impallidisce e scompare davanti a un riconosciuto e definito quadro clinico.

Non significa esser tristi quando piove, e guardare fuori dalla finestra sperando che finisca: è una condizione strutturale e talmente vivida nella manifestazione degli opposti che gli sbalzi possono sfociare nella depressione: fanno soffrire, appunto.

Due menti strattonano un unico "essere" contendendoselo e, infine, mollandolo esausto in una sorta di limbo.


Calcutta, infilata com'è a pochi chilometri dal delta del Gange fa risentire con l'umido clima della sua privilegiata condizione: gli inglesi non ci misero molto a stabilirvisi prima commercialmente, poi occupandola, assieme a tutto il Bengala e, in breve, insieme a tutta l'India. Calcutta venne fatta capitale del Raj britannico (siamo a metà del XVIII) e lo rimase fino al 1911.

I postumi del successo indipendentista indiano, che a Calcutta ricevette un forte impulso, furono devastanti: la Partition col Pakistan del 1947 portó in Calcutta svariati milioni di persone dal Bengala orientale, rendendo la città luogo di indigenze improvvisa ed esasperata.


I poli dell'umanità si incontrano, si scambiano sguardi, camminano le stesse strade, scansandosi e ignorandosi l'un l'altro, in questo ramo a sé dell'albero indiano.

Pochi sono i fiori da ammirare o odorare, se si ama l'estetica o il bel vedere, ma molte gemme appaiono se si prova a guardare il tutto da una prospettiva meno stringente.


Il lascito britannico è palese nei suoi ampi viali alberati, nella (relativa) disciplina stradale, nella migliaia di splendidi taxi costantemente alla ricerca di clienti, negli alti alberghi di lusso, nelle banche, nelle sedi delle multinazionali, nei gruppi di ragazze -o ragazze sole- che finalmente appaiono sul nostro cammino vestite con jeans e maglietta, nei nomi delle strade.


E poi, roba da non crederci, non ci sono mucche.




Fosse solo questo, Calcutta (o Kolkata, dal 2001) sarebbe identica a tante città figlie del boom del settore terziario, senza Storia né tracce umane da ripercorrere e nessuna volontá di lasciare testimonianza.


Calcutta, però, è bipolare.


Negli ampi viali alberati trovano posto innumerevoli accampamenti fatti di tende e lamiere, sotto i palazzoni degli alberghi, delle banche, delle multinazionali, del lusso e della finanza, si sdraiano gli orfani, la presenza e la pressione dei mendicanti è la più alta di tutti gli altri posti.


Tip#1: Se viaggiate in coppia, preparatevi a ricevere numerosi ed ambigui complimenti riguardo l'avvenenza della vostra ragazza. Esattamente: li faranno non a lei, ma a voi, fortunelli che non siete altro. Ed è assolutamente normale in tutto il paese, perciò abituatevi e non fate i gelosoni.




Calcutta, poi, è considerata la culla del Risorgimento indiano: una bestia mai doma, un ribollire di azioni e contro-azioni nei confronti della potenza straniera, aliena.

Per questo, fiera e consapevole del suo primigenio sentimento indipendentista, del suo essere zoccolo duro del fervente patriottismo coronato dai successi di Gandhi, per questo le strade portano un nome diverso, dopo la "ritirata" degli inglesi (gli americani si ritrovarono ad avere l'ambasciata in Ho Chi Minh street), per questo la piazza principale, la raffinatissima BBD Bagh, deve il suo nome all'acronimo delle iniziali degli attentatori al Governatore britannico del tempo (ammazzarono un contabile, ma questo è un altro paio di maniche).




Calcutta, però, è bipolare.


E cosí l'attrazione maggiore, il monumento più bello, ciò che richiama come turisti soprattutto gli indiani stessi, è il Victoria Memorial, un continuum armonico di marmi bianchi, eretto in onore della regina Vittoria, simbolo ed ereditá del dominio coloniale.




I razionali vialoni subiscono una drastica metamorfosi nel reticolo di affollatissime stradine in cui ci si addentra man mano che ci si allontana dal centro: a sud, nascosto tra le bancarelle che vendono infinite ghirlande di fiori rossi, coloratissimo e sacrissimo si situa il Kalighat, costruito per la feroce Kalí, avida di sangue.




Impossibilitati dalle regole del tempio a fotografare, riposi sulla parola la testimonianza di un esagitato culto che non abbiamo esitato a definire già fanatismo.

Un bel po' di capre vengono continuamente condotte sul retro del padiglione centrale per placare la sete della Dea, mentre l'idolo centrale è assolutamente inavvicinabile, tanto la folla preme e spinge per la venerazione.

Il contrasto tra la natura e la mentalià delle persone dentro e fuori dal tempio ci stupisce e stordisce, dandoci ulteriore prova del dualismo che questa città vive e fa vivere.


<<Calcutta is the city ot Joy>>, ci aveva detto, sorridente, un pittore incontrato al Bandhavgarh.

Può essere (ad ognuno le sue insindacabili impressioni); ma mai come a Calcutta sono affiorate le giustapposizioni, le contrapposizioni, le disfunzionalità silenti e quelle già manifeste, le apparenze e gli inganni delle apparenze.


Calcutta è bipolare.


E, come chi è bipolare, soffre.

 
 
 

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