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VARANASI

  • (in colpevole ritardo) Fulvio e Irene
  • 16 mar 2016
  • Tempo di lettura: 4 min

Varanasi è, "semplicemente", il fulcro del sacro.

E' il posto nel quale gli hinduisti agognano di morire, nella fervida speranza -ma soprattutto nella cieca fiducia- che il divenire cenere sulle rive del Gange li esenti, una volta per tutte, dal ciclo delle reincarnazioni, dal samsara.

Ma non è certo la Morte, o come viene affrontata, il punto focale di Varanasi, ciò che la rende potentemente attraente e se-ducente.

E', piuttosto, la cosciente convivenza tra i due grandi avvenimenti che accadono all'uomo: la vita e la morte.

In Varanasi trova la sua sintesi la natura delle cose, celebrando -o edulcorando, dipende da come la si vede- col ricorso alla fede la caducità dell'esistenza.


Varanasi ci dà il benvenuto con una poderosa bufera in una sera di festa: come ci accorgiamo dalla sfilza di "No" alla richiesta di una "room", lo Shiva Festival riempie la città, e le decine di templi accolgono il brulicante viavai di fedeli.

Dopo un po' di ricerca condita da tanta acqua e tanti rifiuti, la legge dei grandi numeri si fa finalmente rispettare e ci procuriamo una sistemazione, convinti della sua bontà sia dalle avverse condizioni climatiche, sia dai postumi di 12 ore passate su rotaia.


La luce del giorno (dopo) ci svela il volto urbanistico della città vecchia: un labirintico incrociarsi di viuzze ospita dai classici chioschetti venditutto ai venditori di paan, dai sarti ai negozi di fiori, dagli speziali ai ristoranti maggiormente tourist-oriented, dove onnipresenti sono -rullo di tamburi- i koreani.

Non ci è stato dato di conoscere il perchè e la natura di questo curioso legame che -la ibrida fisionomia suggerisce- sembra andare armoniosamente avanti da ben più di una generazione.


L'offerta culinaria di Varanasi permette a tutti di riconciliarsi con la propria flora intestinale: i turisti sono tanti, e la città si è ben abituata ad accogliere anche i non-indiani, assecondandone gli svariati gusti e sfizi (a proposito di turisti, su 3 italiani incontrati, 2 -a Khajuraho- erano una coppia di Firenze, l'altro -a Varanasi- uno studioso di musica indiana di Scandicci. Il mondo è grande, ma quando ci si mette...)


Tip#1: Non prendete alla leggere ciò che si dice sulla cucina indiana e sul suo uso delle spezie: è tutto vero. In particolare, se non vi aggrada il piccante, voi e il vostro stomaco farete bene ad abituarvi quanto più velocemente possibile: una pietanza preparata 'non-spicy' risulterà comunque piccante. Per fortuna, dolci bevande a base di latte (il Lassi anzitutte) vi aiuteranno a smaltire velocemente la sensazione. A conti fatti, difficilmente troverete sgradevole qualcosa.


Il dedalo diluisce -ad ovest nei viali commerciali, mentre -ad oriente- sfocia in ciò che di Varanasi è il marchio di fabbrica: i ripidi ghat collegano i vecchi quartieri al Gange e allo stesso tempo li proteggono dal fiume, che nella stagione delle piogge vede la sua portata aumentare in modo esponenziale.


Passeggiare lungo il sacro fiume rende vicini spettatori della vita locale: già nella prima mattinata il sole si fa sentire e permette alle centinaia di panni stesi di asciugarsi, dopo essere stati sciacquati, insaponati e vigorosamente sbattuti sui gradoni affioranti dall'acqua.




Ghat affollati, ampi o decorati si alternano con irregolarità a ghat pressoché deserti, spogli o sonnacchiosi, ma mai privi di fascino.

I barcaioli si concentrano anzitutto in quelli di SomeswarI (a cui vengono attribuiti poteri taumaturgici), Munshi , ma soprattutto il Dasaswamedh e l'Assi, quest'ultimo situato a meridione e particolarmente pittoresco e venerato, luogo di confluenza dell'Assi col Gange: da questi posti fioccano le offerte di gite -ma senza l'usuale insisistenza- dalla durata (e dal costo, ovviamente), trattabile.




Se si è -comprensibilmente- accaldati, i vecchi vicoli godono di un microclima a sé , dove il sole non batte se non quando le distanza fra i tetti lo consentono, ma dove, anche, si respira tutta la gamma di odori che una città molto sporca ha da offrire, con i miasmi dei processi chimici delle enormi merde delle (finalmente) enormi vacche a far mal abituare le narici.



Sorgono qua e là tempi e tempietti, tutti adorni dei fiori e delle offerte votive, ma la palma del 'più sacro' se l'aggiudica il Vishwanath, il cui ingresso è vietato ai non-hinduisti e la cui cupola è interamente ricoperta da 800 kg d'oro.


Ma Varanasi non è solo una bella città lambita da -e costruita in funzione di- un fiume sacro.

Varanasi (o Banaras, se si vuole usare il nome antico) sprigiona un'innegabile energia che, per molti, assume la sembianze del sacro e del mistico.

Come per tutto ciò che attiene alla sfera dello spirituale, la tradizione, i riti e i miti agiscono da fondamenta dogmatiche a cui l'uomo da tanto tempo si attiene e in base alle quali da tanto tempo sceglie le proprie azioni e decide che fare della propria esistenza.



Così, ogni sera alle 19.00, sul Dasaswamedh Ghat, si tiene un'ampollosa cerimonia, la Ganga Aarti, durante la quale 4 brahmini salutano la fine del giorno ed onorano la Dea del Fiume con danze, incensi e un incessante suono di campane.

Ma il fiume non scandisce solo la giornata.

Il Gange scandisce anche tutta la vita.


Il mito racconta che la compagna di Shiva, Sati, si gettò nel fuoco nel tentativo di proteggerlo da un atto di umiliazione (e l'ormai raro ma orrido rituale del sacrificio della vedova sulla pira del defunto marito porta il nome di Sati). Il corpo di Sati, amorevolmente trasportato da Shiva verso l'Himalaya, cominciò però a cadere in pezzi. Successivamente, venne dichiarato luogo sacro ogni punto nel quale una parte di Sati era caduta: sulla riva occidentale del Gange, dove tuttora sorge il Manikarnika Ghat, si posò l'orecchino

.

Per tutto il giorno i dom trasportano barelle di legno o di bamboo con corpi accuratamente ricoperti da coloratissimi sudari per i vicoli adiacenti al Manikarnika.

Pire vengono intanto costruite sui gradoni in riva al fiume, in mezzo ai cani e alle mucche che liberamente pascolano nel posto.


I dom, seguiti da un piccolo corteo di familiari, immergono la salma nel Gange: in quel momento, l'individuo ottiene la moksha, la liberazione dal samsara, dalla condanna della vita dopo la morte.

Paglia e polvere vengono usate per dar fuoco alla legna, e il fuoco in breve tempo divampa, sotto gli occhi sereni dei congiunti.

E, in abiti informali intorno alla pira, si canta e persino si sorride guardando quel peso per l'anima finalmente scomparire, finalmente ridursi in niente.

E nessuno si dispera.

E nessuno piange.






 
 
 

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